mercoledì 27 marzo 2013

DB 10


Per la nota serie Classifiche non richieste specificamente da nessuno e in perfetta coincidenza con il rinnovato interesse mediatico nei confronti dell’artista, ecco 

“LE MIE DIECI CANZONI PREFERITE DI DAVID BOWIE”



1 - THE HEARTS FILTHY LESSON
2 - LIFE ON MARS?
3 - ASHES TO ASHES
4 - WHERE ARE WE NOW?
5 - JUMP THEY SAY
6 - THIS IS NOT AMERICA
7 - SPACE ODDITY
8 - CRIMINAL WORLD
9 - THE BUDDAH OF SUBURBIA
10 - THURSDAY’S CHILD

Alcune osservazioni:

- Sì, non c’è “Heroes”

- Sono tutti singoli con l’esclusione di “Criminal world”, tratta dall’album “Let’s dance” (il brano migliore di quel disco, inspiegabile che non sia stato scelto come singolo) 

- “The buddah of Suburbia” è tratto dall’omonima colonna sonora per la fiction tv inglese ispirata al romanzo di Hanif Kureishi.

- Se questa fosse una classifica dei videoclip, “Jump they say” sarebbe al primo posto.

- Ero tentato di mettere “Where are we now?” al secondo posto, ma temendo che parte dell’entusiasmo fosse legato all’attualità del pezzo, mi sono contenuto e l’ho collocato appena fuori dalla top tre. 

- So che molti fan non amano “The hearts filthy lesson” e che a pochi, in generale, verrebbe mai in mente di indicarlo come uno dei migliori brani della sua carriera. Per me invece non solo rappresenta lo zenit della produzione di Bowie, ma uno dei miei brani pop preferiti di sempre, una sorta di oscuro tesoro, incapace di farsi penetrare e afferrare sino in fondo malgrado i migliaia di ascolti. Con quelle sue voci distorte, il testo composto da frasi senza successione logica, il sound elettronico così malato, la sua totale atemporalità, è un capolavoro di cui non riesco mai a stancarmi. E sono passati... (aspetta che controllo su Wikipedia)... diciotto anni. Sembra ieri. O stamattina. O l’anno prossimo. 


lunedì 11 marzo 2013

L'AUTORE CHE NON C'ERA GIA' PIU'


In questi giorni sto leggendo un libro di un affermato romanziere americano e mi è tornata in mente la prima, e unica, volta in cui ho avuto l’occasione di incontrarlo di persona. E’ avvenuto diversi anni fa, in una piccola libreria di Milano, dove era stato invitato a presentare il suo primo libro tradotto. Io ero tra il pubblico, scarso, una quindicina di persone in tutto. Desideravo fortemente essere presente perché avevo adorato quel suo esordio italiano. Era un breve libro di racconti, sorprendenti, immaginifici, al pericoloso confine fra il surreale e la fantascienza. Mi erano sembrati molto differenti dalle short-stories dei post-moderni americani suoi contemporanei, mi avevano aperto prospettive nuove verso territori dove, da solo, non mi sarei mai sognato di avventurarmi. Ero lì anche per ringraziarlo simbolicamente di questo, di avermi fatto varcare delle soglie. Non che lui ne fosse consapevole, né che io avessi intenzione di dirglielo, però accoglierlo alla sua prima apparizione pubblica nella mia città mi era parso un dovere. 
Ripensandoci oggi però quel nostro incontro simbolico si fondava su un equivoco spazio-temporale. Colui che mi ero presentato per sostenere era ai miei occhi il promettente autore di una serie, ipotetica e futura, di raccolte di sbalorditivi e fantasiosi racconti. Ciò che nella realtà avvenne fu che non pubblicò quasi più racconti, se non una striminzita raccolta passata inosservata rispetto ai numerosi (e voluminosi) romanzi che avrebbe prodotto. Anche questo può succedere: giudicando un artista dalle prime opere un ammiratore si immagina un determinato percorso, ma spesso la parabola dello scrittore finisce per differire radicalmente da quella che il lettore appassionato si era prefigurato. E’ normale. E’ frequente.
In questo caso specifico tuttavia le coordinate era già saltate ampiamente, senza che io potessi saperlo. Mentre si trovava davanti ai suoi sparuti quindici spettatori milanesi, l’autore aveva da tempo cominciato la sua attività di romanziere in patria e di lì a poco avrebbe dato alle stampe il suo primo successo internazionale, un grosso romanzo la cui ambientazione attingeva a piene mani dalla sua autobiografia, sebbene la vicenda fosse di pura fiction. Aveva dunque già intrapreso una strada che si distaccava in maniera netta da quella che io avevo previsto (e pregustato). Lo scrittore a cui io stavo stringendo la mano e a cui porgevo una copia per l’autografo, quello che ero venuto a salutare e sostenere, non esisteva più. Era una sua incarnazione precedente di quattro o cinque anni. Non potevamo saperlo, ma ci stavamo ingannando a vicenda, vittime dello stesso fenomeno astronomico per il quale noi oggi sospiriamo osservando la luce di stelle estinte milioni di anni fa. 
Ora mi alzo e vado a riprendere quel libro, per controllare se all’epoca mi avesse scritto una dedica o si fosse limitato al semplice autografo. 
Sì, aveva scritto una cosa molto semplice: “For Matteo, enjoy”. 
Tornassi indietro adesso gli chiederei di aggiungere “the moment”. 
“Matteo, gustati il momento”. Avrebbe avuto più senso. 


giovedì 7 marzo 2013

BELLI PER FORZA


Uno dei miei libri italiani d’esordio preferito è un romanzo uscito nel 2008, si intitolava “Le mie cose” e l’aveva pubblicato la casa editrice torinese Instar. Si trattava di un libro pieno di idee sbalorditive e parlava di un futuro prossimo nel quale i giornali femminili uscivano in edicola in concomitanza col ciclo mestruale, i defunti non venivano sepolti ma caramellati, gli ingorghi stradali si risolvevano mediante una lotteria che stabiliva quali vetture potessero essere prelevate e liberate, i nomi dei figli erano presi dal catalogo Ikea... Un tripudio di invenzioni narrative.
A cinque anni di distanza il suo autore, Marco Lazzarotto, torna finalmente in libreria con il secondo romanzo e sono felice di annunciare che è pubblicato da Indiana. Dopo il successo di Eleonora C. Caruso col suo fortunato e amatissimo “Comunque vada non importa”, un altro giovane autore italiano entra a far parte della nostra squadra editoriale.
Il nuovo romanzo di Lazzarotto si intitola “Il ministero della bellezza” e (poteva essere diversamente?) è ancora una volta pieno di trovate geniali. Non voglio anticiparvi nulla, ma solo raccontare lo spunto di partenza: il governo italiano è nelle mani di un potentissimo ministro della bellezza che impone canoni estetici rigorosi a tutti i cittadini. Solo chi è davvero bello può occupare cariche pubbliche e professionali, può andare a fare shopping, può permettersi di vivere in centro. Gli altri sono progressivamente ostracizzati e costretti a nascondersi ai margini delle periferie. Un problema che investe il giovane scrittore Matteo Labrozzo, talentuoso ma non bello, in procinto di consegnare il suo secondo romanzo. Come farà a convincere l’editore a pubblicarlo? Come potrà promuoverlo in tv o negli incontri in libreria? E come potrà continuare a gestire la relazione con la sua ragazza, decisamente molto carina e avviata a una carriera di successo?
Un romanzo divertente e provocatorio, quasi uno specchio deformante della società che ci circonda. Un libro carico di surreale sensibilità, che sembra il frutto dell’innesto improbabile fra Stefano Benni e Douglas Coupland, e che per molti lettori sarà, sono certo, una rivelazione. 
Ah, e il fatto che l’autore si chiami Marco Lazzarotto (nome che ricorda pericolosamente quello del protagonista), che pubblica ora il secondo romanzo, e che si intimidisca persino a fare le foto per la stampa, vi fa sospettare che questo libro sia anche di un atto di profonda autoironia? Ma no, cosa andate a pensare...


martedì 5 marzo 2013

LO SCRITTORE E FACEBOOK


Ho da sempre un rapporto contraddittorio con Facebook. So che serve, eppure spesso lo metto in discussione. So che può essere gestito in molti modi e ho sempre l’impressione di farlo nel modo sbagliato. So è funzionale ma a volte vorrei non averne bisogno. 
Per il suo utilizzo credo di aver optato verso una forma di socialità ibrida: pubblico commenti su questioni generali, segnalo videoclip e canzoni che mi piacciono, linko i pezzi del mio blog o le interviste che appaiono su altri siti. Per quanto concerne le immagini, non pubblico foto private, ma solo quelle dai contenuti condivisibili senza impegno. Se vado a una festa con decine di persone non ho problema a postarne delle immagini il giorno dopo, se vado a una cena di compleanno con otto amici le tengo per me. Posso pubblicare panorami dalla camera d’albergo delle mie vacanze, ma non certo i ritratti col mio compagno. Opero una separazione, che tuttavia non è netta, ma si situa in una sorta di territorio neutro fra il pubblico e il privato. Credo che questa collocazione nella terra di mezzo tuttavia rispecchi ciò che mi sento, a livello professionale. In quanto scrittore mi percepisco come una figura semi-pubblica. Non sono un cantante pop che viene fermato per strada con richiesta di autografi eppure ogni tanto mi capita di essere riconosciuto dai lettori, nei posti più disparati. Le opinioni che esprimo talvolta vengono riprese e citate altrove. Le recensioni dei libri, le segnalazioni musicali che offro comportano acquisti e commenti. Diversi lettori dicono di fidarsi di me, del mio gusto, e sono pronti a seguirlo. E naturalmente, quando pubblico un nuovo libro, FB è un modo semplice e immediato per informare dell’uscita, annunciare le presentazioni, ricevere pareri e critiche, mantenere un contatto diretto con chi mi legge o mi leggerà. Anche sulle richieste di amicizia cerco di operare un minimo controllo. Avrei superato la soglia dei 5000 “amici” da tempo, ma continuo a rifiutare richieste da profili ambigui (associazioni sconosciute, nickname con immagini di gattini e/o cartoni animati, foto profilo di bellimbusti a torso nudo o gente che, d’istinto, mi appare sospetta). Sbaglierò anche in questo probabilmente. Vedo l’entusiasmo di quelli che vantano i loro numeri di contatti come se fossero personali conquiste.  (La pena che mi fa leggere appelli del tono di “Ragazzi, mancano solo dieci amici per arrivare a quota 3o00! Aiutatemi a raggiungermi questo risultato!”). 
So che c’è chi opera la scelta dei due profili: uno pubblico e uno privato, con uno pseudonimo rivelato a pochi intimi. Una soluzione che non mi ha mai particolarmente attratto, preferendogli l’ambiguità del mio profilo ibrido e irrisolto.

Qualche giorno fa sull’Huffington Post americano è apparso un articolo intitolato “Gli scrittori hanno davvero bisogno di una pagina Facebook?”. L’autrice, Annie Hill, un’esperta in strategie di comunicazione, ne faceva un’analisi in termini di efficacia, non prendendo considerazione aspetti di ordine personale (in sintesi riteneva che, da un punto di vista promozionale, per un autore fosse più conveniente acquistare pubblicità su FB; un’analisi forse valida per il mercato statunitense, da noi quantomeno azzardata). La lettura dell’articolo più che stimolarmi mi ha deluso. Però il titolo mi ha fatto riflettere e scegliere di scrivere questo post. Non solo: mi ha fatto sorgere la curiosità di chiedere al volo ad alcuni amici scrittori la loro opinione sulla questione. 
Ecco alcune delle loro risposte:

Giulio Mozzi: Per quanto mi riguarda, trovo che Facebook sia utile come è utile l'elenco del telefono. Mi fa comodo per il lavoro. Tutto qui.

Antonella Lattanzi: No. Secondo me gli scrittori non hanno bisogno di una pagina Facebook. Di certo avere un sito può essere utile, per esempio per raccogliere rassegna stampa e per segnalare novità, presentazioni, pubblicazioni, o pubblicare articoli e simili. Per chi un sito non ce l'ha - io, per esempio -  Facebook può essere utile per le stesse funzioni per cui è utile un sito. Ma, naturalmente, con un bacino d'utenza molto più ristretto.

Ivano Porpora: Intanto la domanda va specificata. In merito alla pagina FB io non ce l’ho – ho un profilo FB, e c’è una profonda differenza. Ho anche una pagina per il libro, ma funziona un po’ come un sito vetrina nel quale metto recensioni, immagini, qualche idea nuova…
Sul profilo ti posso dire che me ne sto chiedendo l’utilità perché da un po’ di tempo a questa parte mi pare che FB stia diventando una sorta di voragine succhia tempo, nella quale ho sempre meno voglia di perdermi io stesso. Non me ne sono cancellato ancora perché mi serve professionalmente – è il modo migliore perché gli interessati possano essere raggiunti da novità in merito a uscite, eventi, presentazioni, eccetera; e perché io stesso possa nel caso essere contattato per proposte di lavoro.
Ma dal punto di vista personale il mio interesse negli ultimi due mesi – forse dovuto anche al fatto che ero impegnato nella stesura di un nuovo romanzo, e che questo mi ha completamente assorbito – si è praticamente ridotto a zero.

Veronica Tomassini: A mio avviso, sotto certi aspetti, non è affatto un vantaggio per lo scrittore detenere un profilo, una pagina (io ne ho addirittura due, per intenderci, non chiedermi la ragione, più il blog eh); malgrado forse lo scrittore (ipotizzo) possa valutare l'esatto contrario: la pagina mi serve, è una specie di curriculum, un promo perenne eccetera. In realtà, a me è capitato di pensare anche questo: che sia intanto l'ennesima lusinga per un ego già abbastanza allenato (prima ovvia osservazione); e soprattutto l'autore rischia di svelarsi come l'uomo potrebbe-dovrebbe, e tuttavia non lo scrittore. Penso ancora: avessi avuto l'opportunità di comunicare con Dostoevskij, chiedergli l'amicizia e poi scoprire che soffriva di meteorismo, che le aveva girate una mattina perché non trovava le pantofole, sai di quegli status domestici che spesso ci troviamo in bacheca, avrebbe sottratto qualcosa finanche all'autore e persino alla mia devota militanza (il mio immaginario, l'idea che ho nutrito e custodito, il tromp l'oeil tra l'uno, lo scrittore, e noi lettori nel qual caso). Facebook, le sue pagine, il sistema (analisi spicciola, perdonami), hanno democratizzato tutto: talento, mistero, elusività esclusiva, tutto. In quel gioco di ombre cinesi che si stabilisce tra autore e testo e lettore infine: il primo ci perde con la sua pagina, la sua frivolezza guadagnata a sua insaputa, il primo, cioè l'autore, ci perde, credendo di guadagnare.

Giorgio Fontana: Secondo me non ne hanno strettamente bisogno, ma può aiutare molto (specie in un momento dove il sostegno editoriale non è più come un tempo e la figura stessa dell'editore è soggetta a un'interessante rivoluzione). In altri termini, è un tassello dell'identità digitale che uno scrittore, al giorno d'oggi, dovrebbe curare: ma non è un obbligo. (Ho tenuto una lezione al riguardo al Festival di Mantova il settembre scorso, qui ci sono le slide: mi rendo conto che sono molto striminzite senza supporto vocale, ma non ne ho mai cavato fuori un pezzo... ). Per quanto mi riguarda Facebook è un ottimo amplificatore dei pezzi che scrivo, e noto che ricevo proposte (es. collaborazioni / presentazioni) direttamente tramite la sua posta interna invece che via email; ma non molto di più.

Paola Soriga: Io non credo che uno scrittore abbia davvero bisogno di una pagina fb, così come non credo che abbia davvero bisogno, per esempio, di andare in televisione. E’ innegabile però che tutto quanto aiuta a far parlare del libro, specie se si tratta di un esordiente, come me. la mia pagina fb, da quando è uscito il romanzo, ha smesso di essere per gli amici, è diventata pubblica, non so chi siano la maggior parte dei miei contatti. Noto anche che a ogni apparizione televisiva aumentano molto le richieste di amicizia. Stessa cosa per Twitter, o Pinterest, hanno aiutato moltissimo, soprattutto i primi mesi, a far comprare “Dove finisce Roma”, parlandone bene o anche male. 

Gabriele Dadati: A me viene da dire questo: poiché scrivere è un atto relazionale (si scrive perché qualcuno legga, vicino a noi nello spazio e nel tempo o magari lontanissimo da noi nello spazio e nel tempo, ma sempre quel qualcuno deve essere raggiunto), può essere una forma di gentilezza allestire un luogo in cui chi legge possa trovarci. E la gentilezza è una bella cosa.

Ecco, questa di Gabriele mi è sembrata la risposta più poetica di tutte.